martedì 26 aprile 2016

DAL MARKETING ALLA SOLIDARIETÀ

Il 18 marzo 2015 Marcello Girone Daloli ha tenuto nell’aula magna del nostro liceo un incontro-conferenza per le classi terze, durante il quale ha illustrato le basi del marketing, di cui si è occupato per diversi anni lavorando negli Stati Uniti presso la multinazionale "Pepsi Cola", e ci ha fatto conoscere il progetto per la costruzione di una diga in Zimbabwe, che sta curando tuttora. Ha inoltre trattato della globalizzazione, portando la sua esperienza lavorativa in una fabbrica di jeans a Bangalore, in India. 
Qui di seguito trovate i contributi di tre studentesse, che ci parlano delle esperienze raccontateci da Marcello Girone Daloli e delle loro impressioni.

Per ulteriori informazioni sul Progetto e sulla situazione dello Zimbabwe: http://www.help-zimbabwe.org/wordpress/?page_id=201


Se vi dicessi che tutte le nostre scelte in fatto di acquisti, dalla marca del latte al colore della camicia, in realtà non le facciamo noi? Penso che nessuno mi crederebbe: siamo tutti convinti di avere piena libertà di comprare esattamente ciò che vogliamo nel momento in cui entriamo in un supermercato o in un negozio di elettronica. Ma è realmente così? Le scarpe che indossiamo le abbiamo scelte perché ci piacciono davvero o perché vanno di moda? E il cellulare: l’abbiamo scelto in base al miglior rapporto qualità prezzo o abbiamo acquistato quello che eravamo convinti fosse più figo?
Secondo Marcello Girone Daloli, ex manager alla Pepsi Cola, la risposta è sempre la seconda! E questa è solo una piccola parte della questione! Ci sono milioni di manager, amministratori delegati, addetti alle vendite e pubblicitari, a New York, Londra, Milano, Tokyo, Berlino e chi più ne ha più ne metta, che passano le giornate a trovare il modo di entrare nel nostro cervello e convincerci. Convincerci a comprare un prodotto, convincerci che quello è proprio ciò che ci serve, convincerci a dar loro i nostri soldi, perché è questo ciò che vogliono: denaro. Le tecniche del marketing sono talmente sottili che non ci rendiamo conto di quanto veniamo condizionati, ogni giorno, quando guardiamo la TV, ascoltiamo la radio, navighiamo su internet o passeggiamo per strada. Pensiamo di essere in grado di non ascoltare le pubblicità ma, in realtà, non è affatto così: nel nostro inconscio si insedia un’idea che poi cresce, come un germoglio, fino a diventare un baobab e ci spinge a vestirci, uscire e andare al centro commerciale; perché non c’è bisogno di entrare nei sogni della gente, stile “inception”, per impiantare un’idea nel cervello di qualcuno, basta uno spot pubblicitario a metà di una partita. Sono quindi le multinazionali, grazie alla pubblicità, a scegliere che cosa ognuno di noi comprerà domani quando andrà a fare shopping, convinto di aver bisogno di una nuova giacca perché quella dell’anno scorso, ormai, è passata di moda. 
Marcello è venuto a parlare con noi, come con molti altri studenti, per scusarsi di esser stato parte di questo sistema, che utilizza le informazioni che noi ingenuamente forniamo tramite Facebook, Instagram, Ask, Snapchat, Tumblr e Whatsapp, per plasmare ancora più facilmente le nostre menti. Per scusarsi di averci venduto dei prodotti che ci fanno male e soprattutto fanno male alle economie dei paesi più poveri, fanno male ai bambini sottopagati che, in India, Cina o Indonesia lavorano per dieci ore al giorno in fabbriche fatiscenti senza alcun tipo di controllo sulla sicurezza. Per dirci che è compito nostro cambiare le cose, perché per la sua generazione ormai è troppo tardi ma noi forse possiamo sperare che i nostri figli, tra dieci o quindici anni, non verranno bombardati continuamente da messaggi pubblicitari, proprio in quel momento della loro vita in cui sono più ingenui e vulnerabili: l’infanzia. Per dirci che è possibile cambiare, come ha fatto lui. Lui che, ad un certo punto, si è accorto di che cosa stava facendo, si è accorto che il suo lavoro lo rendeva ricco ma non felice, che non rendeva felici noi, e non rendeva felice chi lavorava nelle fabbriche di lattine. E ha cambiato vita. Ha lasciato tutto e, zaino in spalla, ha girato il mondo, in autostop, facendo affidamento sull’ospitalità e la gentilezza delle persone che incontrava. Ha visitato, anzi no, non era un turista, ha vissuto in Africa, Sud America e Asia, ha visto l’ Himalaya e ha lavorato in una fabbrica di jeans in India, ha conosciuto persone diverse, provenienti da zone diverse, con storie diverse, ha capito che la vita non è stare in un ufficio a Manatthan cercando un nuovo modo di condizionare la gente. Adesso Marcello si occupa di costruire una diga in Zimbabwe, no profit, per aiutare la popolazione a risollevarsi dalla terribile situazione in cui si trova.
La storia incredibile di quest’uomo, che ha avuto il coraggio di aprire gli occhi e cambiare qualcosa nella sua vita e in quella delle centinaia di persone che sta aiutando in Zimbabwe, mi ha fatto pensare a come, in effetti, non sono immune alle armi del marketing e a che cosa potrei fare io per portare avanti questo cambiamento (da smettere di comprare acqua in bottiglia, a condividere questo messaggio per cercare di coinvolgere altre persone), ma mi ha anche fatto pensare a come ciò che mi ha convinta ad ascoltare Marcello è proprio la sua abilità nel marketing. La conferenza, infatti, era studiata in modo da essere coinvolgente e catturare l’attenzione del pubblico a cui era destinata, con un linguaggio vicino a quello degli studenti e tematiche pensate per toccare la nostra sensibilità, proprio come in ogni pubblicità fatta bene. Quello a cui abbiamo assistito, quindi, è un nuovo modello di marketing? Un marketing a fin di bene, che giova alla coscienza di chi ci ha venduto, in un certo senso, un po’ di consapevolezza e spirito di solidarietà, a noi che questa consapevolezza l’abbiamo acquisita e a coloro che, forse, un giorno verranno aiutati da qualche studente ispirato dal discorso di Marcello.
GIORGIA BULLI III C




Marcello Girone Daloli ci ha raccontato che il marketing consiste nella produzione e nella promozione di un prodotto al fine di ricavarne un profitto e che alla base delle strategie di vendita si trova un attento studio del target, il bersaglio da colpire. A questo scopo hanno un ruolo fondamentale i mezzi di comunicazione di massa, controllati dalle multinazionali che, a loro volta, controllano le menti degli acquirenti, spesso a livello inconscio. Il media più potente è la televisione, che colpisce soprattutto quando la gente è più vulnerabile, come ad esempio dopo un’intensa giornata di lavoro, attraverso associazioni di desideri che garantiscono l’acquisto di un prodotto che apparentemente non ha nulla a che fare con il desiderio reale. Per questo si fa leva sugli istinti più bassi dell’uomo e della donna: sessualità, che garantisce la continuità della specie, e denaro facile, per soddisfare il bisogno di protezione originato dal desiderio di maternità. Durante la prima serata, nel momento di massima audience, i programmi televisivi e gli spot pubblicitari contengono molto spesso questo tipo di messaggi, mediante donne poco vestite e giochi a premi. L’uomo, vedendo la donna, associa al suo desiderio sessuale il prodotto che si sta pubblicizzando e, allo stesso modo, la donna associa il prodotto sponsorizzato alla cifra in palio, che lei stessa avrebbe potuto vincere rispondendo alla semplice domanda posta dal presentatore del quiz. Il tutto avviene inconsciamente; nessuno comprerebbe un prodotto perché crede veramente che sia utilizzato dalla miss o dal calciatore che appare nello spot ma, nel momento in cui si troverà di fronte a decine di marche diverse per uno stesso prodotto, l’uomo ritroverà dentro la confezione la ragazza provocante mentre la donna avrà quelle migliaia di euro che le spettano dalla sera precedente. 
Oltre alla programmazione televisiva, le multinazionali qui da noi pagano anche le redazioni dei telegiornali, contrariamente a quanto avviene nei paesi del Nord Europa dove l’informazione è gestita direttamente dallo Stato, in modo indipendente da poteri politici ed economici. In Italia, invece, la stampa è controllata da entrambi i poteri, al fine di far passare idee politiche o promuovere aziende. Così accade che scandali internazionali di aziende molto potenti passino sotto silenzio, come lo scandalo “Coca Cola” in Colombia, che ha portato all’uccisione di cinque sindacalisti che denunciavano le condizioni di lavoro dei dipendenti e l’abbassamento della falda acquifera dei villaggi nei pressi degli stabilimenti. Inoltre i media non possono raccontare delle guerre in Congo per il dominio sulle miniere di Coltan, una miscela di minerali indispensabili nella produzione di apparecchiature elettroniche, per cui sono state uccise quattro milioni di persone negli ultimi vent’anni. 
Un altro lato negativo del marketing è la globalizzazione economica, un mercato nelle mani di pochi, che sfrutta il libero scambio delle merci ignorando i diritti dei lavoratori. Il modo migliore per vincere la concorrenza consiste infatti nella riduzione dei costi di produzione e della manodopera, soprattutto nei paesi del sud del mondo. Anche in questo caso, quando avvengono inconvenienti quali la morte di oltre mille operai, come accaduto nella fabbrica di jeans crollata a Dacca nel 2013, i media si limitano a parlare in modo generico di “marchi occidentali” senza fare i nomi di aziende famose come la Benetton, che lì produceva i suoi capi. 
Nello stabilimento di Bangalore, dove il relatore ha lavorato, il costo della manodopera era di 0.57 dollari l’ora, mentre in Italia era allora di oltre 15 €, così come in tanti altri Stati del mondo. Questo meccanismo ha arricchito solamente le multinazionali, che non pagano in Occidente le tasse dei loro profitti; siamo proprio noi occidentali che, comprando prodotti realizzati illegalmente a basso costo, contribuiamo all’impoverimento del nostro stesso sistema economico, non in grado di fronteggiare la concorrenza e quindi costretto a dislocare le fabbriche nei paesi del Sud del mondo, riducendo la produzione in Occidente. Tutto ciò ha contribuito inoltre a un ulteriore impoverimento delle popolazioni produttrici locali.
Bisogna andare quindi verso un sistema economico che rispetti i diritti umani e non badi esclusivamente al profitto delle grandi multinazionali. Un esempio di questo tipo di solidarietà è presente in un’area dello Zimbabwe, il Paese con il più basso indice di sviluppo umano del mondo. L’aspettativa di vita lì è di appena vent’anni, l’energia elettrica viene erogata solamente per qualche ora al giorno e la popolazione è in gran parte colpita dall’AIDS. Marcello Girone Daloli ha visitato Saint Albert, un villaggio nel nord dello Zimbabwe dove si trovano un piccolo ospedale con solamente tre medici, e due scuole con quasi duemila bambini. Nel 2006 l’intero paese riceveva l’acqua potabile dall’unico pozzo rimasto attivo in seguito all’abbassamento della falda acquifera. Sono iniziati così i lavori per la costruzione di un bacino di raccolta dell’acqua piovana durante la stagione delle piogge, da utilizzare durante i mesi di siccità: si tratta del “Progetto Diga”. Purtroppo, tra il 2008 e il 2009, un’epidemia di colera ha portato alla morte di oltre 4000 persone, che si sarebbero potute salvare se il paese avesse avuto a disposizione l’acqua potabile. Per la costruzione della diga sono stati spesi solamente 156.000 euro, con cui si garantirà alle generazioni future di evitare di morire di colera. 
I volontari che hanno preso parte ai lavori parlano inoltre di “donoterapia” riferendosi alla gioia che genera in loro il poter lavorare per realizzare qualcosa che per gli abitanti del luogo era fino a poco tempo fa un sogno e che oggi si sta trasformando in realtà.
AURORA EMPERGER III C 




Il discorso di Marcello Girone Daloli è stato diviso in due parti: nella prima ha parlato di marketing, mentre nella seconda ci ha fatto conoscere il “Progetto Diga-  Emergenza Zimbabwe” a cui ha dato vita nel 2006.
Dopo aver lavorato per anni nel campo pubblicitario e televisivo, in cui occupava posizioni di rilievo alle quali, per sua stessa ammissione, era giunto troppo giovane, ha deciso, complice la passione per la montagna, di dare una svolta alla sua vita. Ha viaggiato per quasi un anno sull’Himalaya e, di ritorno in Italia, ha continuato nella sua ricerca interiore compiendo ulteriori viaggi-pellegrinaggi. Nel 2006, come detto, ha dato vita ad un progetto il cui fine è quello di portare acqua al villaggio, alle scuole e all’ospedale di St. Albert in Zimbabwe.
Dopo essersi soffermato su questi dati biografici, ha parlato delle tecniche di mercato, che sono riassumibili nelle 4P: prodotto, prezzo, punto vendita e promozione. Poi ha proseguito spiegando che le aziende ci influenzano durante ogni momento della nostra vita con diverse strategie, come ad esempio l’associazione di desideri. La televisione è il più potente mezzo che viene usato per invogliarci a comprare. Spesso, alla fine del giorno, quando siamo stanchi e quindi più vulnerabili, ci buttiamo sul divano e guardiamo i nostri programmi preferiti. Nelle pause pubblicitarie veniamo bombardati di messaggi che ci spingono a comprare determinati prodotti. Poi, al supermercato, magari distratti perché stiamo parlando al telefono, la nostra mano tenderà automaticamente a buttare nel carrello ciò che abbiamo visto alla tivù.
Ci ha fornito anche altri esempi di questo tipo, ma adesso vorrei parlare dell’argomento che in maniera lampante stava più a cuore al nostro ospite: lo Zimbabwe. Questo paese, oltre ad essere uno dei più poveri al mondo, è anche tra i più colpiti dall’AIDS, con un’aspettativa di vita estremamente bassa e un’altissima mortalità infantile. Gli sforzi di Marcello Girone Daloli si concentrano su St. Albert, non lontano dalla capitale, dove un ospedale, un complesso scolastico e l’area rurale non avevano fino a poco tempo fa abbastanza acqua per bere e coltivare. A ciò si aggiunge il fatto che l’ energia elettrica è presente solo per poche ore al giorno, senza preavviso, e la linea telefonica non funziona da anni. Inoltre in Zimbabwe c’è una pesantissima inflazione e un generale grave stato di denutrizione. Con queste caratteristiche è naturale che lì risulti esserci il più basso indice di sviluppo umano del pianeta. La dipendenza dagli aiuti umanitari è totale.
Il “Progetto Diga” ha finora terminato la costruzione di un bacino per raccogliere l’acqua piovana, portato le tubature all’ospedale e installato due impianti di potabilizzazione. In futuro si prevede di rifare anche l’impianto elettrico dell’ospedale, di mantenere quanto finora realizzato e di continuare a formare personale addetto alla manutenzione delle strutture. Gli obiettivi sono di rendere la struttura sanitaria di St. Albert completamente autonoma dal punto di vista idrico e alimentare, di migliorare sensibilmente le condizioni igieniche e di riuscire a coltivare e allevare anche nelle aree circostanti.
Questo progetto è caratterizzato da un bilancio trasparente e si basa esclusivamente sul volontariato, senza addebito di costi di gestione o spese organizzative.
Per concludere vorrei nominare la dottoressa Elizabeth, medico presso l’ospedale di St. Albert, che ha deciso di tornare in Zimbabwe smettendo di curarsi e impegnandosi fino all’ultimo per aiutare la sua gente e migliorarne le condizioni di vita. In una sua lettera, scritta quando ha deciso di ritornare al suo paese natale, ha riportato una citazione dalla Bibbia. Questo passo può essere considerato il suo testamento spirituale: “Se il cicco * di grano non muore rimane solo, ma se muore produce molta frutta.” (Gv. 12, V 24)

* NB Gli errori presenti nella citazione sono voluti, per riportare in maniera assolutamente fedele ciò che Elizabeth ha scritto in italiano, che non era la sua lingua madre.

HALIMA IGBARIA III F

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